Dopo una sosta di alcuni anni a partire dall’avvio del Covid nel 2020, quest’anno il progetto “Auser per il Saharawi” – avviato nel 2015 in collaborazione con l’associazione “Kabara Lagdaf” di Reggio Emilia – ha finalmente riportato i bambini africani sulle spiagge ravennati.
Nei giorni scorsi, per una settimana, il centro ricreativo culturale AUSER “Scuola viva” di Casal Borsetti ha ospitato e portato quotidianamente al mare dieci piccoli “ambasciatori di pace”, sei bambini e quattro bambine (più una educatrice e un educatore): bimbi malati di calcolosi renale e di celiachia, per cui vengono presi in carico dai centri ospedalieri dell’Emilia. E per i giovani africani è stata davvero una settimana di gioia e di salute.
A chiusura del periodo di soggiorno, si è svolto un incontro alla presenza di Daniela Gatta, del Comune di Ravenna; ed è stato offerto un pranzo ai bambini da parte delle coop. Ricreazione e Spazio104 Insieme, alla presenza dell’assessore Gianandrea Baroncini.
Contenta e soddisfatta la presidente Auser di Ravenna, Mirella Rossi. “Voglio ringraziare i preziosi volontari Carmine e Teresa, che condividono con i bambini tutto il periodo di presenza a Casal Borsetti; nonché le tante associazioni, i cittadini e i volontari che sostengono questo progetto, oltre ai bagni al mare che molti di loro non hanno mai visto. Durante la loro presenza abbiamo organizzato diverse attività – visite in campagna, incontri e laboratori creativi con altri bambini – al fine di rendere il loro soggiorno all’insegna dell’inclusione, in un contesto ambientale sereno e salubre.
In particolare, ringrazio per il sostegno e la collaborazione il Comuni di Ravenna, Il centro sociale “Porta Nova” di Russi, Il centro Paradiso di Russi, I ragazzi di “Spazio 104 insieme”, Cupla CNA, i Volontari per la protezione civile Mistral, la Pro Loco di Casal Borsetti, l’associazione Lidi Nord Eventi, e tutti i volontari dei centri e circoli Auser della provincia di Ravenna, per il sostanzioso supporto e contributo”.
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“Auser per il Saharawi” è un progetto che rientra nell’ambito della cooperazione internazionale nei campi profughi per il Saharawi, sostenuto dai Comune di Ravenna, Modena e Reggio Emilia in partenariato con l’Associazione Kabara Lagdaf ed il cofinanziamento della Regione Emilia-Romagna.
La storia del popolo Saharawi è complessa come tutte le storie di colonizzazione, sconosciuta da molti, abbandonata al silenzio più assordante, ma merita davvero di essere riportata all’attenzione anche attraverso il messaggio dei “piccoli ambasciatori di pace” per fare conoscere la situazione nei campi profughi e perché la loro è una causa giusta di legittimazione e autodeterminazione che cerca di anteporre la via pacifica e la mediazione internazionale prospettate dall’ONU agli interessi economici, strategici e lucrosi di molti Paesi del mondo.
Il Saharawi è un popolo che trova la sua origine nel Sahara Occidentale che per le sue importanti risorse minerarie (fosfati) e il suo strategico sbocco sul mare, ne hanno fatto durante la storia una preda per le mire coloniali di molti Paesi. A seguito della colonizzazione spagnola dalla quale nel 1965 ne chiesero l’indipendenza con il fronte Polisario attraverso un referendum mai svolto, ha visto la sua storia cambiare tragicamente dal 1975 quando, il vicino Marocco approfittando della situazione e interessato ai loro beni, ha occupato le loro terre e costretti a difendersi e fuggire. Nel 1999 si è finalmente trovato l’accordo per le procedure organizzative del referendum che purtroppo non ha trovato il riconoscimento delle liste dei votanti da parte del Marocco lasciando in stallo la situazione per tutti questi anni.
Oggi vivono dispersi e divisi: molti sono rimasti nei territori occupati dal Marocco, altri sono nomadi nei territori liberati mentre la parte più numerosa è stata costretta ad abbandonare la propria terra rifugiandosi nei campi profughi nel deserto algerino. Si calcola siano duecentomila i Saharawi residenti nei campi profughi vicino a Tindouf, nell’estremo sud-ovest dell’Algeria.
La zona che venne data dall’Algeria alla popolazione in fuga è l’hammada (deserto) algerino, tra Tindouf ed il confine con la Mauritania. Una delle maledizioni più temute dalle genti del deserto recita: “Che Dio ti mandi nella hammada!” Questo luogo infatti è un deserto piatto e pietroso, freddo d’inverno e soffocante d’estate (le temperature arrivano ai 45°-56° in estate per scendere poi in inverno a –5°), spesso battuto dall’Erih, un vento molto forte che riempie gli occhi e la bocca di sabbia.
Ogni accampamento (Wilaya) ha il nome di una città del Sahara Occidentale per evidenziare il legame con la terra lasciata. Gli accampamenti si chiamano quindi: Smara, Dakhla, El Ayoun e Ausèrd. Ogni accampamento (Wilaya) è diviso in sei-otto province (Dairas), a loro volta suddivise in quartieri (Barrios). In ogni Daira sono presenti Comitati popolari di base per i settori chiave: educazione, sanità, giustizia, approvvigionamento alimentare, artigianato.
Ogni Daira ha un dispensario con le medicine e ogni Wilaya un ospedale con un laboratorio di analisi e un reparto di ostetricia-ginecologia.
Vivono di aiuti umanitari; molti dei quali arrivano dalle organizzazioni internazionali e dai singoli governi. E’ sconcertante la dignità e la fermezza con cui difendono la loro causa lottando da quasi cinquanta anni per non essere isolati; per istruirsi, lavorare, crescere anche nell’esilio, come popolo e come individui. I campi profughi saharawi costituiscono un modello: prima di tutto sono autogestiti, in secondo luogo questa autogestione è in mano alle donne, che si sono ritrovate sin dall’inizio a gestire l’intera organizzazione dei campi, quando gli uomini erano impegnati al fronte. Le donne sono istruite, vogliono conoscere, formarsi (sono laureate e diplomate nei paesi in cui il saharawi ha convenzioni) e tornano nei loro campi: parlano in pubblico, stringono le mani, accolgono nella loro tenda gli stranieri, discutono, resistono difendendo la loro causa e i loro diritti.