«Si è sempre lo straniero di qualcuno. Imparare a vivere insieme, è questo il modo di lottare contro il razzismo». (T. Ben Jelloun).
Parla di una ragazzina piena di rabbia, divisa a metà.
Da una parte l’Africa, il continente nero, bellissimo e accogliente; ma ora penso non lo sia più.
Nella mia mente risuonano le grida senza fine, disperate, che cercano di attirare l’attenzione degli aiutanti dell’associazione Mare Nostrum, di un ragazzo forse addirittura della mia stessa età, senza genitori, abbandonato a se stesso insieme ad un’altra infinità di persone che non conosce e che sta vedendo morire. Sta annaspando nell’acqua per salvarsi, sta affogando, anche lui morirà poco dopo probabilmente. Non porta una borsa piena di vestiti, scarpe…; ma un grosso bagaglio pieno di coraggio, della sua cultura, di integrazione e soprattutto di pace. Lui è lì, in quel mare gelido, la sola via che gli permette una vita migliore; mentre io sono qui al caldo in casa mia, protetta dall’amore dei miei genitori e lo guardo da uno schermo. Sono dalla parte dell’Italia, Paese occidentale, anch’esso bellissimo e accogliente, ma ora penso non lo sia più.
Le mie orecchie ogni giorno non fanno altro che sentire i pensieri arrugginiti dall’egoismo e dall’ignoranza: «Ci rubano il lavoro, i soldi, la casa, le donne. Non portano niente con loro se non malattie infettive (ebola, malaria…). I clandestini ci invadono e i finti profughi alloggiano in alberghi di lusso. Saranno la causa della rovina, della caduta e della distruzione del nostro Paese». Ecco questi sono gli unici pensieri che possiamo esprimere noi occidentali, impassibili e superficiali, oserei dire con finti problemi. Pensiamo a comprarci borse, vestiti, macchine, case, perché quello che abbiamo non ci basta; nel frattempo loro (“quelli che non vogliamo”, “quelli che se muoiono in mare vengono identificati con un numero”, “quelli che ci invadono”) pensano a rifarsi una vita.
Anziché aiutarli alziamo muri, allunghiamo i fili spinati e limitiamo i luoghi in cui potrebbero vivere; li allontaniamo dai loro sogni, dalla oro meta.
Perché pensiamo che un mondo a colori sia più brutto di quello in cui ci troviamo oggi? Perché portiamo via i bambini dal parco quando arriva la famiglia con la pelle diversa? Ci ricordiamo le condizioni in cui eravamo costretti a vivere quando emigrammo verso le Americhe? Perché non ci immedesimiamo nella loro situazione? Hanno paura anche loro, questo è certo; ma loro si buttano ad occhi chiusi, come quando mettono piede su quel gommone e si lasciano alle spalle la bellezza che avevano costruito, distrutta da un’immensità di orrore, le violenze che hanno subito, la famiglia che hanno abbandonato…
Ma non vedete?! È tutto per noi, tutto per avere un nostro contatto, per trovare la pace. Perciò deve cambiare qualcosa nel nostro cervello. Abbiamo due gambe e due braccia, riusciamo a fare tutto se vogliamo e ci crediamo; non è mai troppo tardi e io ci credo ancora in un mondo a colori.
Credo che insieme riusciremo a combattere il razzismo. Credo che l’italiano e lo straniero riusciranno a tenersi per mano e a vivere insieme. Credo che non moriranno più così tante persone che scappano da un Paese in guerra per trovare la pace. Credo nella multiculturalità e nell’integrazione. Ritengo che non ci sia bisogno delle parole dei politici o dei giornalisti: «Li dobbiamo aiutare a casa loro! Sono veramente troppi, alziamo i muri».
Dobbiamo agire con i fatti e per me l’Auser è una grandissima dimostrazione. Sì perché le persone che fanno parte di questa associazione hanno due gambe e due braccia come noi, ma hanno un grande cuore e soprattutto un cervello sicuro dell’affermazione che: «Signori si nasce anche dentro una capanna».